I bilanci non mi appartengono, chiuderli significherebbe dimenticare gli errori e non imparare e se un po’di saggezza è nata con quel venire al mondo podalica, questi li chiamo “maestri”.
La consapevolezza però sigla le mie poche e granitiche certezze.
In questo 2017 ho smesso di sentire.
Gli odori, i sapori, vedere i colori.
Ho smesso di mettere le mani nella consistenza della vita ed ho camminato “strafottente” nelle scarpe di un’apatia.
Ho preso il cuore, le budella ed il fegato e ho rimpastato tutto con una forte razionalità.
Ho indossato l’armatura del “non importa e del va bene” senza capire dove stessi e volessi andare.
La pioggia, il vento, il sole e la neve, sono state stagioni da segnare su un calendario e non sensazioni da attaccare alla pelle.
Ho smesso di piangere.
Di ridere.
Di sorridere.
Di capire.
Di volere.
E soprattutto, ho smesso di desiderare.
Ho smesso, in silenzio, di “essere” e nella mia normalità “sono stata” una, tra tante moltitudini di anime che nell’inconsistenza dell’io si sono sedute a lasciarsi impolverare dalla razionalità.
Ho smesso di vivere ed ho iniziato a sopravvivere.
Ho portato a termine con quell’ “in piedi soldato” i miei doveri.
Ho scritto tanto, studiato molto, lavorato bene.
Ho eseguito senza preoccuparmi della schiena curva e dei trapezi infiammati.
Ho vissuto senza guizzo, senza un sollazzo, senza scippo negli occhi.
Ho dato spazio ai graffi dell’anima di continuare a strapparmi e senza sentire dolore ho finto di respirare.
Ho smesso.
Semplicemente ho smesso.
Quando finisci, ci sono due cose che con un contenitore vuoto ci si può fare: gettarlo via in un cassonetto senza riciclata o vuoto, lo si inizia, di nuovo, ad utilizzare.
Ed allora sciolgo i capelli, indosso un vestito e con la tranquilla sensazione di quel mio indefesso ed anche antipatico “so chi sono” inizio, da sola, ancora una volta, a voler riempire.
Che sia un 2018 pieno di costruzione, Signori e Signore.